«Oggi più che in altri momenti della nostra storia recente – dichiara la segretaria nella camera del lavoro, Monica Pagni – bisogna avere il coraggio di guardare i problemi che minacciano il futuro delle nostre comunità per quello che sono realmente.
Quello del lavoro povero, perché precario e poco qualificato, è il problema dei problemi, al quale anche nel nostro territorio si contrappone la narrazione tossica e autoconsolatoria dei giovani che non avrebbero voglia di lavorare. Di mettersi alla prova. E che da questo dipenderebbero le difficoltà delle aziende a trovare il personale di cui hanno bisogno.
La realtà è invece tutt’altra. E per comprenderla è necessario ribaltare gli stereotipi e cominciare dai numeri oggettivi. Ad esempio, quelli che raccontano del drammatico declino demografico che oramai da molto tempo produce effetti devastanti anche nella nostra realtà. Guardando ai dati Istat, infatti, negli ultimi vent’anni (2001/2021) in provincia di Grosseto i giovani compresi nelle tre classi di età che vanno dai 20 ai 34 anni sono passati da 39.830 (a fine 2001) agli attuali 29.616, con una perdita secca di 10.241 persone.
Scomponendo questo dato per classi d’età, viene fuori che al 31.12.2021 (Istat) – rispetto al 2021 – i ragazzi residenti in provincia nella fascia 20-24 anni sono diminuiti di 891 unità. Quelli nella fascia 25-29 anni di altri 4.436. E infine nella fascia 30-34 anni di 4.887.
A questi dati drammatici va aggiunto il fatto che oggi la popolazione over 65 residente in provincia (61.370) è il 28,17% del totale (217.8546), con un indice di vecchiaia (rapporto over65/under14) che raggiunge la soglia di 259,7 (la più alta in Toscana), un indice di dipendenza strutturale di 64,2 (persone che non lavorano ogni 100 attivi)».
Un vero e proprio crollo in termini demografici; una tendenza, peraltro, che si registra in tutto il Paese, anche se il dato della provincia di Grosseto è particolarmente drammatico, sia rispetto alla media nazionale, ma soprattutto nel confronto con le altre province della Toscana.
«Purtroppo – continua Pagni – non finisce qui: alla drastica diminuzione dei giovani residenti dovuta al calo delle nascite, per avere una visione d’insieme di quel che ci attende, va affiancato il fenomeno delle migrazioni in altre province italiane e all’estero di una bella fetta dei nostri giovani più qualificati sotto il profilo degli studi e quello professionale; fenomeno molto sottodimensionato a causa del fatto che molti di questi ragazzi e ragazze pur essendosi trasferiti continuano a mantenere la residenza presso le proprie famiglie di origine, compaiono nei nostri registri anagrafici, ma vivono ormai strutturalmente altrove.
Per completare il quadro richiamo brevemente due studi. Da un’elaborazione dei dati Istat da parte della Fondazione Di Vittorio della Cgil, tra vent’anni, nel 2042, in Italia ci saranno 6,8 milioni di persone in meno in età da lavoro, e 3,8 milioni di pensionati in più. Il saldo naturale è già negativo, quello migratorio quasi: si muore più di quanto si nasce, si parte più di quanto si arriva. Il tema è quello dell’impatto sul futuro del Paese, della sostenibilità sociale ed economica: lavoro, pensioni, assistenza, sanità, bassa natalità, bisogno di manodopera straniera. Questione demografica, migratoria e occupazionale: nodi che si intrecciano e che la politica sembra ignorare.
Un’inchiesta su Affari & Finanza di lunedì 1° agosto che ha dato voce a diversi demografi e sociologi, inoltre, avverte che già al 2030 mancheranno in Italia 2 milioni di lavoratori nella fascia d’età 30-64 anni. Già oggi i trentenni sono un terzo in meno dei cinquantenni, e a loro volta i nuovi nati sono un terzo di meno dei trentenni. Il gap fra nascite e morti supera ormai le 300 mila unità. Ma la tendenza è quella di un’ulteriore discesa delle nascite sotto le 300 mila entro il 2050».
«Le conclusioni per noi della Cgil – chiude il suo ragionamento la segretaria – sono nette e inequivocabili: in provincia di Grosseto si sono incrociati la crisi demografica con quella di un modello di sviluppo che negli ultimi vent’anni ha puntato sul lavoro povero e dequalificato. Un mix che mette in serissima discussione i livelli di qualità della vita che ci siamo potuti permettere fino ad oggi. E che penalizzerà più di ogni altra fascia di popolazione, quella delle ragazze e dei ragazzi dai 20 ai 35 anni che in ogni caso saranno lavoratori più poveri perché sulle loro retribuzioni graverà anche il peso economico di una popolazione in massima parte anziana con bisogni sanitari e sociali molto alti.
Le aziende, quindi, non riescono a reclutare il personale di cui avrebbero bisogno non perché i giovani non hanno nessuna voglia di lavorare, né perché c’è il reddito di cittadinanza – di cui beneficiano prevalentemente persone povere e inoccupabili – ma perché i giovani sono pochi, e perché quelli con qualifiche professionali più elevate preferiscono lasciare questo territorio non accontentandosi di retribuzioni troppo basse e di lavori troppo poco qualificati. Da questo versante occorre agire con politiche di contrasto alla precarietà affiancate a politiche salariali e di riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione. Per far sì che i giovani restino dobbiamo dare loro prospettive e protezione.
Ma non basta. Il tema generazionale, che sarebbe ottuso continuare a ignorare, non può oscurare il fatto che senza una massiccia iniezione di lavoratori stranieri (21.611 gli stranieri residenti, 9,92% del totale) non ce la faremmo comunque a sostenere il nostro tessuto produttivo. Invece di slogan demagogici contro l’immigrazione, allora, sarebbe opportuno focalizzarsi su una revisione delle politiche migratorie e sui processi di integrazione e di formazione professionale ad esse collegate. I numeri, tutt’altro che “invasivi” delle famiglie immigrate in Italia, come in questo territorio, contribuiscono alla sostenibilità del nostro sistema ben più di quanto le ricompensino, in termini di fisco e previdenza, ma anche nella possibilità di ripopolazione delle aree interne e di conseguente mantenimento di servizi come scuole e sanità.
Di tutto questo penso si dovrebbe discutere in campagna elettorale perché va ribaltato il paradigma fino ad oggi prevalente, sia rispetto al modello di sviluppo che al mercato del lavoro e perché le risposte per il domani avrebbero dovuto arrivare già ieri e la posta in gioco è il futuro del Paese compreso il nostro territorio».