Nei giorni scorsi il giudice Giuseppe Grosso ha emesso in sede di “Tribunale ordinario – Sezione lavoro” un’ordinanza importante che riconosce le ragioni della signora Alessandra Neri – seguita dall’Ufficio vertenze della Cgil presieduto dall’avvocato Anna Capobussi, e difesa dagli avvocati Carlo De Martis e Paola Pippi – nei confronti della società Credit Recovery Service Srl, condannando l’azienda al reintegro al lavoro della lavoratrice per averla ingiustamente licenziata.
«L’esito di questo processo – spiega Massimiliano Stacchini, segretario della Filcams Cgil – ci rende particolarmente soddisfatti per più di un motivo. Il primo è senza dubbio il fatto che il giudice ha reso giustizia a una lavoratrice che, nonostante le sofferenze conseguenti ad alcune operazioni per una patologia oncologica, ha puntualmente chiesto di tornare al lavoro al momento previsto del suo rientro. Limitandosi a chiedere di essere reintegrata in smart working, al pari della maggioranza dei suoi colleghi, per il fatto oggettivo di essere immunodepressa e quindi più esposta al rischio di contagio da Covid. Ma ricevendo come risposta dall’azienda una mail di licenziamento per non essersi presentata al lavoro, nonostante avesse chiesto più volte sia per e-mail che per telefono istruzioni su come avrebbe dovuto comportarsi. Un atteggiamento prevaricatorio assolutamente inconcepibile».
Il giudice Grosso ha verificato la documentazione sanitaria e le reiterate comunicazioni della lavoratrice all’azienda, ingiustificatamente negate dal datore di lavoro nonostante una “situazione di rischio che concretamente avrebbe potuto mettere in pericolo la salute della lavoratrice in un contesto certamente eccezionale“, ed ha condannato la C.R. Service Srl, annullando il licenziamento e ordinando il reintegro nel posto di lavoro. E condannando l’azienda al pagamento delle retribuzioni che la stessa avrebbe percepito dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali e al pagamento delle spese legali.
«Una vittoria su tutta la linea – aggiunge Stacchini –, che oltretutto sancisce l’inconsistenza di una certa narrazione retorica oggi molto di moda, secondo la quale le aziende sono “corrette” e rispettose dei lavoratori a prescindere, perché non avrebbero alcun interesse a perdere un dipendente. Insinuando un pregiudizio negativo nei confronti di qualunque lavoratore chieda il rispetto di un diritto. Questa vicenda, al pari di altre, dimostra invece che non sono infrequenti atteggiamenti vessatori decisi a tavolino per liberarsi di dipendenti non più ritenuti funzionali alle strategie aziendali, violando spesso i più elementari diritti della persona.
C’è infine un altro motivo di soddisfazione, che dà ragione alle battaglie che la Cgil fa sin dal 2015, quando entrò in vigore il D.Lgs. 23/15, il famigerato “Jobs Act”. Il giudice Grosso, infatti, anche se alla signora Neri non si applicava tale disciplina per essere stata assunta prima che entrasse in vigore, nel condannare l’azienda al reintegrp nel posto di lavoro ha richiamato ad avvalorare la propria decisione due sentenze del 2019 della Corte suprema che hanno sancito una lettura costituzionalmente orientata del D.Lgs 23/15, perché circoscrive in modo oltremodo ingiustificato e restrittivo la tutela reintegratoria in favore dei lavoratori.
Il Tribunale di Grosseto ha così ribadito il principio per cui “l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (ipotesi che attribuisce il diritto al reintegro) … comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”. Principio successivamente ribadito affermando “la necessaria proporzionalità tra la sanzione espulsiva e l’inadempimento, precisando che il giudice non può esimersi dall’accertamento in concreto della proporzionalità tra il fatto contestato e la sanzione adottata“.
Argomentazioni che non solo rafforzano l’illegittimità dell’ingiusto licenziamento, ma che mettono in evidenza la visione sostanzialmente vessatoria del Jobs Act nei confronti dei lavoratori, che possono essere licenziati perché è più conveniente pagare un’indennità risarcitoria che tenerli al lavoro».