L’Italia non cresce, non cresce la Toscana e non cresce neppure la nostra provincia. È l’analisi che emerge dal report “Commercio e consumi”, realizzato dalla Confesercenti e che pone una lente di ingrandimento sul 2020.
La mancata crescita è da attribuire, tra le altre cose, «alla frenata della spesa delle famiglie italiane. Tra crisi, commercio elettronico e deregulation gli ultimi otto anni hanno visto la chiusura di molti negozi (32 mila in Italia), cosa che ha cambiato la faccia stessa delle città, e dei centri storici in particolari, sempre più vuoti e desertificati».
L’analisi della Confesercenti prende avvio dai dati del 2011 e getta lo sguardo al 2020. In questi anni la spesa degli italiani è diminuita ma anche cambiata.
«Nel 2018 la spesa media annuale in termini reali – cioè al netto dell’inflazione – delle famiglie italiane è stata di 28.251 euro, inferiore di 2.530 euro ai livelli del 2011 (-8,2%). Una cifra superiore ad un mese intero di acquisti da parte di una famiglia media e anche alla perdita effettiva di reddito (-1990 euro) registrata nello stesso periodo» si legge nel report.
In Toscana i dati parlano chiaro: ad aumentare è la spesa per alimentari, tabacchi e bevande, che passa dai 4.940 euro del 2011 ai 5.077 del 2018 e ai 5.179 stimati del 2020 (tra l’altro in controtendenza con il dato nazionale che anche qui fa registrare un segno meno). Diminuisce la spesa per l’abbigliamento da 1.285 a 1.013 del 2020 con 274 euro in meno spesi a famiglia. Diminuisce anche la spesa per l’abitazione, da 12.579 euro a 11.431, mentre aumenta quella per servizi sanitari e spese per la salute (circa 150 euro in più) come quella per i trasporti (quasi 600 euro in più) e per gli spettacoli e la cultura in genere. Scende, purtroppo, quella per l’istruzione (da 166 euro si passa a 112) e diminuisce sia quella per i servizi ricettivi e la ristorazione (quasi 150 euro in meno) e per altri beni e servizi in genere. In totale si è passati da una spesa media per famiglia nel 2011 di 32.749 euro, ai 31.543 del 2018 sino ai 31.397 del 2020. E a soffrire di più, se si esclude il settore alimentare, è proprio il commercio, a partire dall’abbigliamento.
Le famiglie guadagnano meno, ma spendono di più per settori come la salute e i trasporti. E questi soldi si tolgono quindi inevitabilmente ad ambiti ritenuti più superflui, come l’abbigliamento. È questo, infatti, il settore dove si sono avute più chiusure. «Il tasso di sopravvivenza delle imprese del commercio è via via peggiorato nel tempo. Oggi, delle imprese nate tre anni fa, sopravvive solo il 49%. Una percentuale che si abbassa a quota 45% nell’abbigliamento e 44% nei pubblici esercizi».
«La via maestra per rilanciare i consumi delle famiglie è l’occupazione. I temi del lavoro devono essere al centro delle politiche di sviluppo del nostro Paese – ribadisce con forza Confesercenti -: abbiamo bisogno di regole chiare e di più coraggio, per ridurre il costo del lavoro e far ripartire le retribuzioni. Abbiamo bisogno di mettere più soldi nelle tasche di chi lavora, in particolare dei salari medi, quelli che hanno più sofferto durante la crisi. Secondo le nostre stime, una detassazione degli incrementi retributivi per tre anni potrebbe lasciare nelle tasche degli italiani 2,1 miliardi all’anno. Risorse che si trasformerebbero in una spinta di 1,7 miliardi di euro ai consumi, di cui 900 milioni accreditabili alla spesa delle famiglie ed il resto ai consumi di imprese e pubblici. La detassazione degli aumenti, accompagnata al non aumento dell’Iva, ci darebbe, nel 2020, circa 9 miliardi di spesa delle famiglie in più, facendo finalmente ripartire il motore dei consumi e quindi la crescita».